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24 Mar [15:37]

L'intervista - Mario Andretti
"F.1 e Indy devono riavvicinarsi"

Stefano Semeraro

Saggio come un patriarca, svelto come un ragazzino, Mario Andretti porta a spasso per il paddock di St.Petersburg i suoi 76 anni con la leggerezza di chi è abituato a vivere veloce, ma senza nessuna fretta. Basta spostare due sedie nel Mahaffey Theatre, dove è appena finito il briefing dei piloti prima della gara inaugurale di St.Petersburg, e il “pilota del secolo XX” secondo l'Associated Press è pronto per una chiacchierata.

«L'IndyCar è in grande salute - spiega muovendo lentamente nell'aria le mani decorate con gli anelli che ricordano le sue vittorie più prestigiose – Solo che ha bisogno di una stagione più lunga. Speriamo in futuro di finire un po' più tardi, almeno in ottobre, non in agosto. La stagione dovrebbe essere lunga sette mesi e mezzo, oppure otto».

Ma come, in F.1 si lamentano tutti che la stagione non finisce mai, che i Gran Premi sono troppi...
«La stagione in F.1 è perfetta, da marzo a novembre. Troppi GP? No, dal punto di vista di un pilota più sono e meglio è. Gli Stati Uniti hanno tanti climi, questo è un paese vasto, puoi avere tranquillamente gare da gennaio a dicembre».

La F.1 è in crisi, si dice: secondo lei cosa le manca?
«Per conto mio in F.1 ci sono regolamenti troppo rigidi. Poi, è vero che i tempi cambiano, ma non sarebbe sbagliato avere piloti ospiti in altre serie, come accadeva quando correvo io, specie nei paesi dove la F.1 non è così conosciuta. Al GP degli Stati Uniti non sarebbe sbagliato invitare un campione americano da parte Mercedes, McLaren o Ferrari. Io ho avuto la chance di correre in F.1 con squadre che allora erano al top, come Lotus e Ferrari, perché non dare a qualche driver americano di oggi la stessa possibilità. Poi, la F.1 è la F.1. Si piange oggi perché la Mercedes è irraggiungibile, ma non ci ricordiamo quando in passato Ferrari, Williams, McLaren, Lotus erano irraggiungibili? I tifosi di oggi vogliono qualcosa di più in termine di spettacolo, è comprensibile, ma il dato di base non cambia tanto».

La IndyCar può giocarsi carte più vincenti sotto questo aspetto...
«La Indy Car invece gode del fatto che non è prevedibile. Ci sono gare combattute fino alla fine del campionato. Alexandre Rossi, abituato in F.1 a correre con squadre senza la minima possibilità di primeggiare, qui con la squadra di mio figlio Michael ha la possibilità di vincere qualsiasi gara. In IndyCar le macchine sono tutte uguali, certo, cambia la livrea e poco altro. Però, lo spettacolo è meraviglioso».

Come vede la prossima stagione della F.1?
«Seguo sempre la Ferrari, il mio amore rimane quello. Sapranno avvicinarsi alla Mercedes, il segreto è combattere, sempre, combattere. Nessuno deve arrendersi. Si farà avanti la Red Bull, credo, mentre la Mercedes non ha mostrato ancora tutto nei test».

Vettel le piace come pilota?
«Mi piace tanto. Dal primo momento che l'ho conosciuto, per il 60esimo anno della Ferrari in Bahrain. Lui veniva dal trionfo a Monza con la Toro Rosso, ebbi modo di parlargli grazie ad Adrian Newey, che è stato mio ingegnere. All'aeroporto, prima di salutarci, mi aveva detto che il suo obiettivo era arrivare alla Ferrari. Ora è contentissimo, e ha portato armonia nel team, quello che ci voleva. E trovo che Raikkonen sia giusto come suo compagno di squadra».

Hamilton è il campione in carica, eppure molti lo criticano per il suo stile di vita. Condivide?
«Ad Hamilton basta vincere. Quando uno fa il suo lavoro, non c'è niente da criticare. Lui si gode la vita e va benissimo così».

Un top-driver della Indy Car, uno Scott Dixon ad esempio, saprebbe vincere anche in F.1?
«Siamo tutti esseri umani. Sento sempre dire: “eh, i piloti di ieri erano più bravi...”, ma ciò che fa la differenza è quello che ha in mano. Un bravo pilota in Europa è un bravo pilota in America, e viceversa. L'ho sempre pensato, girando per le le tante categorie in cui ho corso, il senso che hai come pilota alla fine è lo stesso. Cerchi il giusto equilibrio, una macchina che sappia darti una possibilità. Con una Ferrari o con una Mercedes, un bravo pilota Indy sarebbe sicuramente capace di vincere».

Nel 2016, dopo tante stagioni, in F.1 correrà anche un team americano: con che prospettive?
«Il team Haas per ora si è presentato bene. Gunther Steiner conosce bene l'ambiente, poi con l'aiuto della Ferrari, che gli fornisce i motori, e con Dallara che realizza la macchina... si vedrà. È bello vedere che anche gli USA entrano ufficialmente in F.1. Sarebbe bellissimo vedere uno scambio fra questi due mondi, come quando Mansell veniva a correre qui. Nel '94 anche Senna provò per Penske, e ricordo Montezemolo che a quei tempi mi aveva invitato a Maranello: 'Sarai i nostri occhi', mi disse. Pensavano di entrare in questa categoria. Del resto la IndyCar si merita grandi cose. È la serie più vecchia dell'automobilismo, tutto è cominciato qui, tanto che possiamo tenere i record a partire dal 1920. Prima si chiamava Triple A, poi Usac, Cart, IndyCar: i nomi sono cambiati, ma la serie è sempre la stessa. Quest'anno la 100esima edizione di Indy sarà una celebrazione per tutta la categoria, che è molto complessa da affrontare. Un campione deve essere bravo nelle piste stradali, sui tracciati cittadini, sugli ovali corti, su quelli medi e sui super-speedway come Indianapolis. È l'unica serie che chiede questa capacità di adattarsi. Il campione di questa serie è il più completo. Del resto a Phoneix, Rossi aveva gli occhi così, fuori dalle orbite, nel vedere che su una pista lunga un miglio si fanno medie di 340 all'ora, e che in curva becchi 5 G e mezzo di accelerazione».

Parlava prima della sua esperienza in F.1, della quale è stato campione nel 1978 con la Lotus. Con la Ferrari invece, di cui fu pilota nel 1971-'72 e poi nell'82, quali sono i suoi ricordi più vivi?
«Forse l'ultimo episodio, nell'82 quando ho sostituito il povero Pironi a Monza. Guidare con 1100 cavalli a Monza, potete immaginare, quella resta la macchina che mi ha impressionato di più in tutta la mia carriera. Poi, con Enzo Ferrari ero abituato a contrattare direttamente, non c'era il dottor Gozzi e nessun altro intermediario. Non era una cosa normale, ma io ci tenevo tantissimo».