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Nel motorsport il rischio è sempre presente e al di là della retorica
del giorno dopo, nelle competizioni fatte per “gioco” o per beneficenza
o per ricordare un amico scomparso, è proprio necessario
non prestare attenzione alle più banali condizioni di sicurezza?
Luigi Ansaloni
Morire per beneficenza, perdere la vita
nello stesso identico modo di colui che
ricordi facendo quello che più ami, cioè
andare inmoto. Il destino a volte si diverte,
e si sa che a volte il divertimento può
diventare nudo, crudo, beffardo, tragico.
La tragedia di Latina e lamorte di Doriano
Romboni nel giornodel “SicDay”, lamani-
festazione dedicata al povero Marco
Simoncelli scomparso due anni fa a
Sepang, non deve solo provocare un natu-
rale e immancabile dolore e strazio, ma
deve anche fare riflettere. Non tanto sul
significato di vita, destino, fatalità, ma
soprattutto sulle modalità di queste trage-
die, sul modo in cui si sviluppano. Rombo-
ni aveva 44 anni, padre di tre figli, era sta-
to, insieme a Loris Capirossi e Max Biaggi,
uno dei grandi protagonisti della riscossa
italiana nel motomondiale nei primi anni
’90, prima della rivelazione di Valentino
Rossi e l’inizio del suo dominio decennale.
“Rombo” eraunpilota tutto coraggio, tutto
cuore, ma non solo: pur non ottenendo gli
stessi risultati dei suoi colleghi più famosi,
aveva comunque vinto sei gare, e aveva
trionfato in circuiti come Laguna Seca, con
quella sua moto gialla Hb numero 15 che
faceva impazzire chiunque e inventava tra-
iettorie che sembravano folli soloapensar-
le. Forse non ha ottenuto quello che meri-
tava nella sua carriera, Romboni, ma era
amato e stimato da tutti, colleghi e addetti
ai lavori, al netto di quella retorica sempre
presente in occasioni simili.
Sicuramente non meritava di morire in
questo modo, nelle prove di un circuito (a
norma? Ne siamo sicuri?) di Latina, tra-
volto da una moto in una giornata che
doveva essere di festa, di ricordo. E il ricor-
do, per quanto violento, forte e tragico, c’è
stato, eccome. Rombo se n’è andato infatti
nello stesso identicomodo del Sic. Un inci-
dente che, dobbiamo essere chiari, non
può essere evitato e che sempre farà parte
delle corse a due ruote. Perché se perdi il
controllo, scivoli, cadi e rimani in mezzo
alla pista, devi solo sperare che nessuno ti
centri in pieno. Non ci sono tecnologie, vie
di fuga, enonsi puònemmenodiredi tene-
re distanze di sicurezza, come in autostra-
da o nella provinciale. Non ci sono altre
possibilità. Sono le corse, e nelle corse a
volte simuore. Econtroquesto tipodi inci-
dente, non c’è assolutamente nulla da fare.
Né nel motomondiale, né nelle gare ama-
toriali. Questo non vuol dire che si devono
alzare le braccia in segno di resa e non si
debbono fare delle domande. Simoncelli è
morto in una gara di MotoGP, facendo
quello che più amava, certo, ma stava
facendo crudamente il proprio lavoro, in
una gara validaper il campionatodelmon-
do, in un circuito assolutamente a norma,
con tutte le protezioni e le precauzioni del
caso.
Romboni era un ex pilota che era tornato
a guidare solo per beneficenza, così, per
gioco, in un circuito "adatto" all'occasione.
Qualcuno, forse, e lo si dice senza voler per
forza colpevolizzare qualcuno o senza cer-
care per forza un responsabile, ha preso la
manifestazione per quello che era: una
garetta, un'occasione non agonistica. Que-
sto è proprio il punto: quando si corre, in
moto o in auto, non si fa mai per gioco. Un
pilota, seppur ex, vorrà sempre vincere,
vorrà dare il massimo, perché lo ha nel
sangue, lo ha nell’istinto. Non esistono
gare o garette. Proprio per questo, la rifles-
sione viene spontanea, senza troppi fron-
zoli e senza troppi moralismi: va bene, va
benissimo la beneficenza, ma è davvero
necessario farla correndo, a 200 chilome-
tri all’ora?
UNA TRAGEDIA
CHE FA
RIFLETTERE
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