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INDYCAR

La storia

Stefano Semeraro

Inviato a St.Petersburg

Poppy ha sei anni e due incisivi che le mancano, ma quando si

tratta di controllare sulla griglia le gomme di papà Scott Dixon,

il campione in carica della IndyCar, è terribilmente seria. To-

glie ogni pietruzza, liscia la mescola, poi corre ad abbracciare

la sorellina Tilly e mamma Emma, ex campionessa britannica

degli 800 metri, per la foto prima dello start. Sorriso allegro e

sdentato, e via, si parte.

Una serie

a dimensione uomo

Benvenuti a St.Peterburg, Florida, dove fra uno yacht e un chio-

sco di arepas (le frittelline che spopolano da queste parti) si

corre la prima gara del campionato 2016 Indy Car. Un universo

semovente e rumoroso, dove i piloti si mischiano al pubblico,

i proprietari delle squadre ai fan in bermuda e t-shirt che in re-

altà sono i veri padroni dello show. In F.1 il paddock sembra un

lager, una gabbia per pochi fortunati reclusi, qui è il corridoio

di una high school al momento della ricreazione, fra la ruota

della fortuna e lo stand dove puoi fare a gara a gonfiare una

gomma (seguono premi). Famigliole con bi-carrozzino e par-

goli scatenati, ragazzini che bighellonano felici godendosi il ru-

more e l'odore delle corse, coppie di fan in caccia di un selfie

memorabile da mostrare agli amici. Tutti vanno dappertutto,

toccano tutto, fotografano ogni cosa, comprese le vetture che

meccanici, con pazienza biblica, tentano di regolare alla di-

stanza di un gomito.

Nel Circus di Mister Ecclestone sarebbe alto spionaggio, da

punire con il taglio del pass. Qui è la norma. Una prassi incorag-

giata dai grandi capi della IndyCar, la serie più veloce del

mondo e anche la più antica, visto che sotto varie forme e sigle

sopravvive, a tratti prospera, dal 1909. Anche la press confe-

rence in sala stampa dopo libere e qualifiche è un rito in fondo

familiare, i piloti sono seduti su un paio di seggiolini piegevoli,

hanno l'aria di chi si aspetta delle domande e non teme l'inter-

rogatorio della stampa. «Per capire la filosofia della Indy Car –

spiega Luca Filippi, cordialissimo come sempre – basta tenere

conto di questo: se arrivi tardi al briefing dei piloti ti danno una

pacca sulla spalla. Se sei in ritardo alla sessione degli autiografi,

fanno 5000 dollari di multa». L'accoglienza, anche nei suoi con-

fronti, è stata ottima. «Gli americani sono molto patriottici, è

vero. Ma apprezzano la qualità. Se mi manca la F.1? Qui sto

benissimo. Facendo il professionista non è facile staccare dalle

corse, ma qui posso avere una vita privata, mentre il Circu sotto

questo profilo è una realtà aliena».

«Non vogliamo fare

concorrenza alla F.1»

«La nostra è una serie meno tecnica – spiega Mark Miles, il boss

della Hullman & Company, la società che possiede la serie, ed

ex presidente del tennis maschile – ma qui tutto deve essere

accessibile. Il famoso “split” fra IRL e CART ci ha danneggiato

in passato, ma ora la serie ha ritrovato un suo equilibrio. Ancora

non produce profitto, ma gli ascolti tv sono cresciuti del 43 per

cento negli ultimi 2 anni, rispetto allo scorso anno a St.Peter-

sburg arriveranno 30.000 spettatori in più. Non abbiamo biso-

gno di fare un marketing aggressivo, perché è la Indy 500 che

crea l'interesse e l'appeal per tutte le altre gare. La 500 Miglia

detiene il Dna della IndyCar, poi ci sono altre gare pilastro –

come St Petersburg – ma non vogliamo aumentarle troppo. Mi

piacerebbe anticipare l'inizio della stagione, e portare qualche

gara fuori dagli States, ma il nostro core business è americano.

Non abbiamo interesse a fare concorrenza alla F.1, anche se

per il momento non vedo facile un link fra noi e loro. Ho vissuto

15 anni in Francia, sono stato a dei GP di F.1, quello che non

capisco proprio è perché in F.1 i tifosi vengano tenuti così lon-

tani. Se vui appassionare qualcuno alle gare, devi fargliele toc-

care. Ecco la differenza forse è che la F.1 ragiona a breve

termine, noi ragioniamo a medio e lungo termine». Guai ad eri-

gere barriere. «La F.1 è esclusiva, la FIndyCar1 inclusiva», con-

ferma con un motto perfetto Stefano De Ponti, il capo della

Dallara Usa.

L'importante qui è fare dei piloti degli eroi a portata di mano

e di autografo, dei team un casa comune. Per tutti, compresi i

giornalisti embedded (ehm...) che vengono dotati di cuffie per

sentire tutte – dicasi tutte – le comunicazioni fra driver e mu-

retto. Tu lì in mezzo alle gomme pronte per il pit-stop, alle pi-

stole pneumatiche, ospite un po' impacciato ma graditissimo.

«Magari avremo bisogno dei tuoi consigli», scherza Michael

Ganassi, il numero 2 del team dopo il fondatore Chip, origini

abruzzesi e dollari made in Usa. «Ad esempio: sai per caso

come tenere lontana la pioggia?...».