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L’editoriale

di Marco Cortesi

TEMPO DI UN GIRO DI VITE

Delirio a Monza. Dopo tre appuntamenti tutto sommato tranquilli,

l'Europeo Formula 3 si è trovato a vivere un incubo. Contatti, scor-

rettezze, decolli, incidenti spettacolari che solo grazie alla fortuna

non hanno portato a risultati drammatici. Cosa è successo? Sempli-

cemente, l'attuale filiera piloti del motorsport ha mostrato uno dei

suoi nervi scoperti. Mentre tutti si concentravano su Max Verstap-

pen in Formula 1, creando un sistema di punteggi necessari per ac-

cedere alla massima formula, ci si è dimenticati completamente

della "parte bassa" della scala, ed il risultato è stato avere un pac-

chetto di piloti di grande talento che non si sono dimostrati pronti

ad affrontare uno dei circuiti più selettivi al mondo con delle vetture

altrettanto toste. Il gap di esperienza si è visto in pieno sull'impianto

brianzolo. In cui, con ali scariche, velocità di punta altissime ma so-

prattutto con la necessità di viaggiare a stretto contatto tra lunghi

rettilinei e brusche staccate, ogni minimo errore si paga caro, anzi

carissimo. Ancor più che a Pau, dove le ali sono carichissime e le

velocità basse. A Monza basta un braccetto piegato, o un decollo,

dopo una staccata sbagliata di pochi metri, per causare un disastro.

COLPA DI MAX

Colpa di Verstappen? In parte sì, in senso figurato si intende. Pro-

prio con l'olandese lo scorso anno si è messa in luce una pericolosa

tendenza a "lasciar correre" su molte situazioni. Con il bisogno di

una grande storia, di avere sempre più vetture, di promuovere la

categoria, e perché no di dare fastidio ai "rivali" della F.Renault,

nella serie FIA si è verificata una sorta di cortocircuito con quella

che dovrebbe essere la natura dell'europeo. Ovvero quella di una

categoria di arrivo, non di partenza, per affinare i talenti selezio-

nando i migliori e in cui i test sono non incoraggiati ma limitati per

regolamento. Una serie in cui un pilota deve necessariamente es-

sere pronto anche a correre a Monza. Perché, come detto giusta-

mente dall'esperto Felix Rosenqvist, "Se è stata così a Monza, a

Macao si rischia che ci scappi il morto". Nel contempo, tutti i gio-

vani piloti provenienti dal karting e dalle prime esperienze in for-

mula sono stati automaticamente autorizzati a sentirsi dei

Verstappen. Cosa normale, perfino positiva in termini di motiva-

zione, ma che si è trasformata in certezza incrollabile ed inconte-

stabile anche per via dei rispettivi entourage. E dei team che, in

periodo di crisi economica, tendono a fare poche domande. Do-

mande che comunque non verrebbero ascoltate: "perdere" un

anno o magari due tra Formula 4 e Formula Renault? Orrore! Noi

si va dritti in Formula 1. Poco importa che il "pilotino" della Toro

Rosso sia stato in realtà preparato da molto, molto lontano con un

piano studiato e cucito sulle sue esigenze e capacità, proprio con

l'obiettivo di essere un'eccezione, non la regola.

POCHE LAVATE DI CAPO

Una conseguenza di questo modo di agire è che per alcune squa-

dre il giovane pilota, specie se fuori dai grandi programmi delle

case, è diventato nient'altro che un piccolo gentleman. Fior fior di

coach, briefing, media session e quant'altro ma poche situazioni in

cui si possa essere messi, anche duramente, a confronto con i pro-

pri errori. Pena il rischio di sfuriate "dall'alto", budget che svani-

scono e quant'altro. Ed è a dir poco incredibile che, con un per-

corso inverso, si sia arrivati alla stessa situazione dello scorso anno

nelle gare GT. La cosa triste è che, al contrario di buona parte dei

gentleman delle ruote coperte, in questo caso si ha a che fare con

giovani dal talento cristallino con enorme margine di migliora-

mento. Ma che rischiano di venire privati della chance di imparare

per gradi, sbagliando e apprendendo dagli errori nei contesti più

idonei.

UNA ROSSA NON FA PRIMAVERA

Ed è preoccupante che non si sia vista nemmeno una vera soluzione.

Bene ha fatto la direzione gara della Formula 3 a dare un segnale

forte. Ma sicuramente non basterà una bandiera rossa, che tra l'al-

tro ha penalizzato di più proprio i leader ovvero coloro che di pro-

blemi non ne avevano creati. Non sono arrivate punizioni esemplari,

o decisioni "di rottura". E non serve nemmeno fare briefing che du-

rano fino all'una di notte e poi vengono puntualmente disattesi. La

soluzione non è alla portata perché si tratta di un problema "cultu-

rale". La Formula 3, ma in generale le categorie cadette, ivi com-

prese squadre e piloti, devono interrogarsi su cosa vogliono

davvero. Certo, non ci sarà molto tempo, perché in men che non si

dica si arriverà a Spa-Francorchamps e soprattutto al Norisring, trac-

ciato che accentua ancora di più le problematiche di Monza.

IL SIMULATORE NON BASTA

Altro capitolo della questione giovani-Monza riguarda i simulatori.

Com'è possibile arrivare a certe catastrofi dopo ore e ore spese sui

simulatori di più alto livello? La risposta è (chiaramente) che i simu-

latori non possono colmare tutte le aree dell'apprendimento. Anzi,

in realtà, ne colmano relativamente poche, per quanto importanti.

Lasciato sempre fuori, ad esempio, è il traffico: la totalità dei simu-

latori professionali si focalizzano sul singolo pilota, dato che non

esistono ancora modelli di intelligenza artificiale tali da rendere

pienamente realistico un apprendimento professionale. Parados-

salmente, a quel punto è quasi meglio correre online con simula-

tori commerciali. E se è vero che la soluzione più semplice

potrebbe essere quella di far provare diversi piloti in "multipla-

yer", è anche altrettanto vero che il problema è di fondo. La lo-

gica dell'uso dei simulatori nel motorsport è infatti quella di offrire

delle sensazioni e dei numeri verosimili, e poi lasciare il cervello

dell'utilizzatore "riempire i vuoti" utilizzando esperienze passate

per ricreare un secondo livello di simulazione. Si tratta di un pro-

cesso ben conosciuto e che si applica a tante situazioni anche extra

corse, come ad esempio la riabilitazione degli ex combattenti. Pec-

cato che, quando le esperienze precedenti sono limitatissime, il

gioco non funzioni così bene. Sì, si imparano marce e sequenza

nelle curve, e altri parametri in modo vago, ma l'effetto è lo stesso

di guardare un video: questo perché non c'è correlazione, una

componente fondamentale. Il rischio è passare da un approccio

reale, in cui si inizia piano per poi andare ad aumentare il ritmo fino

ad arrivare al limite, all'approccio virtuale, ovvero andare contro

tutti i muri per poi rallentare progressivamente finché si arriva al li-

mite. Concetto base, l'esperienza reale non è mai sostituibile, spe-

cie se si è all'inizio di un percorso di apprendimento.