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INDYCAR
Il fatto
Stefano Semeraro
Tre ritiri in tre Gran Premi, e a questo punto non è più difficile
capire perché Fernando Alonso a maggio ha deciso di volare
negli States per correre la 500 Miglia di Indianapolis infischian-
dosene del GP di Monte-Carlo, di quello che pensa la gente e
di tutto quello che gli può arrivare dall'intero anno – l'ultimo
del suo contratto con la McLaren – in Formula 1: «Non ho mai
corso con meno potenza in vita mia», è sbottato Nando via
radio in Bahrain. «La mancanza di cavalli sui rettilinei è impres-
sionante», ha aggiunto dopo aver parcheggiato la sua mac-
china lungo il circuito. «A volte guardo negli specchietti
all'inizio del rettilineo e vedo le altre macchine lontane 300 o
400 metri, così me ne dimentico e inizio a cambiare i settaggi
sul volante, ma la prima cosa di cui mi accorgo quando imposto
la frenata è che improvvisamente ho una macchina attaccata.
Quando alla partenza si spengono le luci del semaforo tu senti
di essere motivato, di aver voglia di lottare, ma così non c'è
verso di riuscire a mantenere la posizione. Cerco sempre di gio-
carmela con tutti, ma c'è poco da divertirsi...». Anche un guer-
riero come lui alla fine si stanca di combattere con le armi
spuntate, infatti quando il team gli ha suggerito un cambio di
strategia, ha borbottato in risposta: «Fate pure come volete».
L’idea di Brown
Il sì di Fernando
L'ironia del resto ormai dilaga nel team. Stoffel Vandoorne, che
non è riuscito neppure a partire, durante il GP ha postato una
sua immagine sul tapi-roulant. «Mi faccio una corsetta. Qual-
cuno ha altre idee per la domenica?». Il ripetuto sarcasmo sul-
l'incapacità della Honda di mettere insieme una power unit
decente dopo due anni e mezzo di tentativi non porterà co-
munque lontano né lui né il bi-campeon spagnolo. A questo
punto, davvero Indy resta l'ultima carta per salvare l'ennesima
stagione disastrosa della McLaren. E' stato proprio il CEO della
McLaren Technologies, Zack Brown, a buttare lì quasi per
scherzo l'idea a Melbourne, rilanciata in Cina. Alonso ci ha pen-
sato su una notte, poi ha risposto entusiasta: «Si può fare!».
A 35 anni le sue chance di mettere le mani su un terzo titolo in
F.1 iniziano a scarseggiare seriamente. Nando ha commesso
l'errore della vita sbattendo la porta di Maranello, ora può
anche sperare in un improbabile, ultimo approdo alla Merce-
des, ma è il primo a sapere che si tratta soprattutto di fantasti-
cherie. Gli resta la Triple Crown, la tripla corona. La
denominazione nata a metà del XIX secolo nell'ippica britan-
nica per indicare l'impresa di chi riusciva a vincere nello stesso
anno le Guineas Stekes, il Derby di Epsom e le St.Leger Stakes,
e che è poi stata adottato è da molti altri sport per indicare chi
riesce a cogliere tre traguardi particolarmente difficili (ad esem-
pio la squadra britannica del Sei Nazioni di rugby che batte le
altre tre). Nell'automobilismo la indossa idealmente chi vince -
in carriera, non nello stesso anno... - il Mondiale di F.1 (in altre
versioni il GP di Monaco), la 500 Miglia e la 24 Ore di Indiana-
polis. Un traguardo cercato da tanti campioni ai tempi in cui la
F.1 non era ancora così importante, e non richiedeva un impe-
gno totalizzante, ma che solo Graham Hill, vincitore di due
Mondiali (1962 e '68), di ben cinque GP di Monaco, della 500
Miglia (1966) e della 24 Ore di le Mans (1972), è riuscito a co-
gliere.
Johnny Rutherford
vincitore della Indy 500
con la McLaren
nel 1976