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26 Apr [9:37]

Petter Solberg

Per rispondere al cronista neozelandese che, malizioso, voleva sapere perché non avesse vinto almeno il duello con Marcus Gronholm per il secondo posto, ha parlato di “big balls”. Che, ha ricordato con un mezzo sorriso, anche il finlandese ha. La traduzione pare del tutto superflua. Esattamente come, agli antipodi, lo era chiedere al norvegese quanto ci fosse rimasto male a prenderle da tutti e due i piloti che come lui hanno nel mirino il titolo iridato. Alla fine della tre giorni intorno ad Auckland, bastava guardarlo per avere la certezza che, al via, non si aspettava di finire a un minuto e passa da Sebastien Loeb. E che non aveva messo in preventivo la possibilità di non riuscire a tenere il ritmo del lungagnone finlandese. C’era sorpresa, nello sguardo del biondino. Persino sgomento. Con gli sterrati altamente adrenalinici dell’isola nord del Paese lontano ha un gran feeling, era intimamente e profondamente convinto di sfruttare il potenziale dell’Impreza per poter fare gara di testa, per allungare la sua mini-striscia positiva. Pensava, credeva, di poter suonare di nuovo tutti e invece, come i pifferai di montagna, era stato suonato. Capita a tutti, prima o poi. Nella sfida fra i pascoli è capitato a lui. “Petter non è abituato a prenderle regolarmente su strade bianche veloci, è successo e la cosa lo ha segnato”, faceva notare l’alsaziano della Citroen. Obbligando in qualche modo anche i più distratti a notare quel senso di insicurezza che il suo avversario non riusciva nascondere. Insomma: girando un altro po’ il coltello nella piaga.
È un estroverso, il trentenne scandinavo. Aria scanzonata e lingua veloce, proprio in quel suo riuscire a sdrammatizzare ogni situazione ha uno dei suoi punti di forza. Sa stupire, sempre e comunque. Quando si batte nell’abitacolo di una macchina da corsa e quando parla. Non ha paura di microfoni e taccuini. Lo aveva fatto capire molto bene fin dal suo debutto in società, in un giorno di novembre di sette anni fa. L’indomani della conclusione di un Great Britain Rally che per lui si era concluso in anticipo. Piuttosto rovinosamente, visto che alla presentazione della squadra Ford per l’annata successiva era costretto a usare una stampella per stare in piedi. Eppure, faccia da impunito, scherzava sulla sua disavventura: “Sono uscito di strada, ma è stato mentre cercavo di sfilarmi dai resti della Toyota che mi sono fatto male”, spiegava. Ammiccante, aggiungeva: “Niente di grave, per l’inizio della prossima stagione sarò a posto. Ad ogni modo è pur sempre meglio che l’incidente mi sia capitato nell’ultima mia uscita da privato che nella prima da ufficiale”. Non male, come biglietto da visita di uno di cui nessuno aveva mai sentito parlare prima.
A farlo conoscere a Malcolm Wilson era stato John Haugland: l’ex-ufficiale Skoda l’aveva visto all’opera in qualche gara di rallycross, l’aveva filmato in azione e aveva spedito la videocassetta al boss della M-Sport. Che dopo averla visionata, aveva convocato il ragazzo per un provino con la Focus. Gli era piaciuto e gli aveva offerto un contratto a lungo termine. Con l’ordine di non fare danni: “I tuoi tempi – gli ripeteva il manager fordista – non li guardo neppure: quest’anno devi solo fare esperienza”. Per cominciare, sei gare e sei arrivi. Con un quinto posto al Safari come miglior risultato. Un buon aperitivo, poi l’antipasto: ancora quinto in Kenya, sesto in Argentina e quarto in Nuova Zelanda. Più che abbastanza per farsi notare da tutti. Anche da David Richards, abile a convincerlo a cambiare casacca strada facendo. Con l’Impreza e in un team la cui specialità non è mai stata quella di far crescere i giovani, ha faticato, ma nel 2001 s’è arrampicato per la prima volta su un podio. In Grecia.
Nel 2002, in Gran Bretagna, la prima vittoria. E il secondo posto nella classifica finale del mondiale, degno prologo a un 2003 trionfale: quattro centri e il titolo festeggiato nella campagna gallese improvvisando un balletto in equilibrio precario sulle transenne. Del resto, prima di cominciare a correre, era stato protagonista in chissà quante esibizioni di rock acrobatico.
Senza tirarsela neanche un po’, continuando a sorridere, ha già vinto una dozzina di rally iridati. Ha vinto tantissimo sulla terra, ma s’è imposto anche sull’asfalto del Tour de Corse. Con un’auto ricostruita a tempo di record ad Ajaccio dai meccanici della Prodrive dopo che lui, allo shakedown, se l’era messa per cappello. “Il merito è vostro, ve lo dovevo”; aveva esclamato nel tripudio di bandiere rosse con la croce bianco-blu che l’avevano accolto sulla pedana del “rally delle diecimila curve”. Con la stessa convinzione che, in tempi assai più recenti, ha mostrato annunciando di avere in testa un’idea meravigliosa: imporsi in dieci dei sedici round stagionali. Facile che mentre lo diceva pensasse di ripetersi anche in Nuova Zelanda. Non c’è riuscito e il suo obiettivo ora è più lontano. Pur se assicura di non avere ancora rinunciato a centrarlo. “Adesso rivinco in Sardegna”, informa.