16 Feb [15:55]
Gigi Galli
Un “vaffa” in diretta tivù, come se ne sentono tanti in tutti i reality. Ma più che un'imprecazione, quello di Gigi Galli è stato uno sfogo. Sussurrato contro il destino cinico e baro che lo aveva appena pugnalato alle spalle dalle parti di Vargasen, una quindicina di chilometri prima del controllo-stop della tredicesima prova speciale dello Swedish Rally. “Non mi ero accorto di essere sotto il tiro di una telecamera”, ha poi spiegato il livignasco a bocce quasi ferme. Prima di consegnare la Lancer ai tecnici della Mitsubishi per dar loro modo di effettuare quel trapianto di semiasse che gli avrebbe permesso di tornare da Hagfors a Karlstad, di restare comunque in gara.
Tanta gente intorno come nella tre giorni svedese non gli era mai capitato di averne. Neppure nei rally italiani. Effetti mica tanto collaterali del suo exploit sui quasi venti chilometri del bis di Torntorp. E anche di quel suo giocarsela praticamente alla pari con i migliori in tutti gli altri tratti cronometrati del Varmland. Con o senza neve a ricoprire le strade. Un'impresa vera, la sua. Di quelle che fanno spalancare la bocca a tutti. E che mettono addosso agli addetti ai lavori una voglia matta di saperne di più. Domande e controdomande, allora. A lui, ma anche ai pochi frequentatori più o meno abituali della serie iridata che abitano nel Bel Paese. Inebriante, per noi quattro gatti che ad essere interrogati da britannici, francesi, spagnoli, finlandesi, svedesi e quant'altri non c'eravamo più abituati.
“Ma questo Galli, dov'è nato?”. Il primo a informarsi era stato Corrado Provera. Dopo aver annotato sulla sua tabella i tempi delle primissime prove speciali. Al Gran Comunicatore non era sfuggito che la seconda guida della squadra nippo-inglese stava strapazzando con regolarità disarmante Harri Rovanpera, il nordico con l'altra berlina con i tre rombetti sul muso. È un sanguigno, il quasi ex numero uno della Peugeot Sport: pane al pane e vino al vino, sempre. Quando via radio gli sono arrivati i tempo delle piesse numero 6, li ha commentati con un “Viva l'Italia” pieno d'entusiasmo. Anche se il colpaccio di Galli non era esattamente un'iniezione di fiducia per Markko Martin, l'ultimo acquisto del Leone Rampante.
“Livigno dov'è?”. L'hanno chiesto in tanti, nella tre giorni scandinava. Valtellina, Lombardia, Italia. Si, è a nord. Sì, la neve è di casa. Sì, come tutti i ragazzini di quell'angolo sperduto del mondo, anche il pilota che ha messo tutti in riga in uno dei venti tratti cronometrati del magico Swedish Rally pensava di farsi un nome con gli sci. Solo che pativa la macchina e arrivava sulle piste che era uno straccio. Uno zio garagista, un circuitino ghiacciato sotto casa gli hanno fatto scoprire il piacere della guida. Talento, tanto. Possibilità economiche, poche. La storia di tanti. Il Trofeo Cinquecento, le prime gioie. L'illusione di sfondare con il Jolly, la delusione. Pochi alti e tanti bassi. Tempi di urlo e botti. O kappao tecnici. Il peregrinare da una squadra all'altra.
“Questa è quella giusta per me”. L'ha detto tante di quelle volte che manco lui si ricorda quante. Ha tenuto duro. Non ha mollato neppure dopo il pasticcio brutto delle ricognizioni abusive in Svezia e la mega-squalifica. Forse è proprio vero che non tutto il male viene per nuocere: senza licenza e con pochissime prospettive, ha scoperto di avere più amici di quanti si immaginava. Gli sono stati vicini, gli hanno dimostrato che non era poi vero che il mondo ce l'avesse con lui. Ha cominciato a proporsi in modo diverso, è cambiato. Lentamente, giorno dopo giorno.
“È proprio bravo, e prima o poi ve ne accorgerete tutti”. Diceva proprio cosi Umberto Andreoletti ogni volta che parlava del Lupo. Con pochi altri, l'ingegnere bergamasco è riuscito a convincere Mario Fornaris a dargli una chance vera, a offrigli un mini-contratto per qualche gara nel mondiale con la Lancer WRC04. Non l'ha sciupata, s'è guadagnato la conferma sul campo. Adesso ha iniziato a ripagarli. E il più bello deve ancora arrivare