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della favola di Esopo del vecchio Leone sag-
gio che tiene udienza nella sua caverna. In
meno di tre minuti ti fa la pesatura come
Minosse: se non gli piaci, non gli piaci per
tutta la vita ed allora è meglio che gli giri
intorno e bene al largo perché ti può anche
sparare! E’ uno “vero”: si è qualificato a
Indianapolis senza tuta e con la T-shirt,
durante una 500 Miglia si è fermato ai box,
è sceso dalla macchina, ha regolato perso-
nalmente l’alettone, è risalito ed infine ha
vinto la gara! E’ un personaggio di frontiera
di quasi due secoli fa, cuore immenso e spi-
rito affascinante, è soddisfatto della vita che
ha vissuto e così goloso di gelati che fa instal-
lare una macchina per gelati nel suo garage
durante la 500 Miglia di Indianapolis, a
disposizione di tutti, ma proprio di tutti,
compresi i tifosi. Il fatto che a 76 anni mi
abbia invitato nella sua officina sperduta
nelleprateriedel Texas e che abbia annullato
una sessione di fisioterapia in ospedale per
incontrarmi mi ha fatto tremare dalla com-
mozione».
Indianapolis, il grande mito america-
nodelle corse. Ti sfidoa spiegarci cosa
significa nello spazio…. Di una rispo-
sta.
«Indy 500 non e' “la gara delle 500 miglia”,
ma la ricorrenza del Memorial Day che com-
memora tutti i soldati americani morti in
battaglia. Indy 500 non e' una gara interna-
zionale, ma profondamente nazionale e
locale. Le celebrazioni del Memorial Day nel
circuito di Indianapolis iniziano alle 8 del
mattino con sfilate di reduci, inni, applausi,
lancio di palloncini e preghiere che culmina-
no, appena prima della partenza della gara e
dopo cinque ore di liturgia collettiva, nel
canto struggente e lugubre di “Back Home
Indiana”. Questo canto richiama allamemo-
ria e a casa nell’Indiana, vivi omorti, tutti gli
uomini caduti in battaglia. Indy 500 rinnova
ogni anno ai presenti il legame arcaico tra
gloria emorte, cioè il senso (più omeno con-
divisibile, ma comunque fortissimo) del
combattere per la patria e per la gloria. È il
Mito della sfida a viso aperto con la morte.
Subito dopo questo canto segue un breve
silenzio profondo e vibrante, quindi Mary
Hulman scandisce al microfono le stesse
parole che da cento anni danno inizio alla
gara: “Ladies and Gentlemen, start your
engines!”. Sempre le stesse parole, niente di
più, niente dimeno: ogni volta non trattengo
le lacrime per l’emozione. Lo Speedway di
Indianapolis, durante la Indy 500 e' la Cat-
tedraledove si celebra il RitodelMotorsport,
nel senso di vero spirito sportivo. Chi va a
Indianapolis per assistere alla gara ogni cin-
que/dieci anni probabilmente non coglie il
senso dell’evento e forse pensa che questo
spettacolo sia ruspante e grezzo. Ma il Mito
ruote o più. Alex è italiano e negli Stati Uniti
ha incontrato l’italianoGanassi, così italiano
che il suo soprannome “Chip” è legato a
come lamadredi originepiemontese lo chia-
mava per significare “piccolo mio”. I due si
sono trovati e si sono piaciuti al punto che
Alex è l’unico ad avere una macchina di
Ganassi: tutte le altre macchine, di tutti gli
anni, sono gelosamente custodite nella sede
della squadra a Indianapolis. Alex e' sovru-
mano quando si impegna nelle sfide impos-
sibili ed è modello di comportamento posi-
tivo per una intera generazione di ragazzi di
tutto il mondo».
So che hai avuto modo di incontrare
A.J. Foyt: che personaggio è? che
esperienza hai tratto dall’incontro?
«Conosco AJ dal 1997, quando per la prima
volta abbiamo progettato e costruito le Indy-
car per i circuiti ovali: per quella stagione di
corse A.J. aveva comperato da noi quattro
macchine senza neppure chiedere un pre-
ventivo, nulla!. Ma noi all’epoca eravamo
così ignoranti delle gare sugli ovali che il
risultato della prima gara fu disastroso e la
domenica stessa, prima della fine della gara,
AJ. aveva già comperato quattro macchine
della concorrenza. Per tutte le gare della sta-
gione, A.J. ci ha osservati da lontano per
vedere come reagivamo alla difficoltà. All’ul-
tima gara, ha rispolverato dalle ragnatele
una delle nostre macchine, senza avvisarci,
senza chiedere dati e assetti e... ha vinto la
gara. Da lì in poi si è dimostrato un uomo di
una dolcezza infinita, prodigo di consigli,
mai in ritardo nei pagamenti. Quest’anno a
Indianapolis dopo una grave operazione alla
schiena era tornato inpista per seguire le sue
macchine ed aveva saputo che eravamo lì
nelle vicinanze: senza esitazione ha piantato
in asso gli appuntamenti con giornalisti e
operatori per venire a trovarci. Dice spesso
“No phoonies”, che in Texano descrive i ven-
ditori incompetenti, sorridenti fuori tempo,
vestiti bene e vuoti dentro; altre espressioni
tipiche hanno a che fare con lo “sterco del
toro” e compagnia cantando. La sua frase
preferita è: “A.J. crede negli Stati Uniti, nella
famiglia e in se stesso, e non necessariamen-
te in questo preciso ordine”. Quando in pista
sento di dover ricaricare le pile dell’entusia-
smo, vado da lui e lì mi sento un personaggio
AJ Foyt a Indy nel 1967
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