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«Basta scorrere l’elenco dei piloti dei vari
campionati e l’elenco delle nazioni emer-
genti, i cosiddetti BRICS, per trovare una
buona correlazione: Colombia, Venezuela,
Russia , India e Cina. I paesi emergenti eco-
nomicamente spingono i piloti locali in
Formula 1 per promuovere prodotti e ser-
vizi locali e in generale fine turismo e cul-
tura ad un mercato mondiale».
Lewis Hamilton recentemente ha
detto che il Motorsport è fatto per
piloti bianchi, ricordando le difficol-
tà di suo padre a “piazzarlo” quando
era giovane. Credi che in futuro
vedremo più piloti di colore, o maga-
ri cinesi e arabi nel mondo delle cor-
se, magari proprio per questioni di
marketing?
«Il Motorsport, o meglio il Motor Racing, è
un’industria capitalista per cui valgono le
semplici leggi del rischio di impresa, del-
l’investimento iniziale, del profitto come
ritorno dell’investimento, con costi iniziali
a fronte di un incerto profitto futuro.
Cominciano ad emergere piloti cinesi, ci
sono già piloti indonesiani, l’onda dei piloti
spagnoli ora declinante è in fase con la
parabola dell’economia spagnola iniziata
dieci anni fa. Il colore della pelle oggi non
fa alcuna differenza: Tiger Woods e Lewis
Hamilton, sulla scorta di grandi contratti di
sponsorizzazione, hanno rotto l’ipocrisia
ed i tempi erano maturi per questo. Ti
ricordi il film “Italians” con Verdone a
Dubai a vendere Lamborghini e Ferrari per
corse spericolate nel deserto? Per questi
marchi di automobili, i paesi del Medio
Oriente sono i più profittevoli e già si vedo-
no piloti arabi di livello discreto nelle cate-
gorie inferiori».
Quali i paletti “etici” del marketing?
Parliamo di uno sport dove ogni gior-
no si rischia la vita…
«Il rischio della morte c’è, non lo nego, ma
non è più così elevato come ai tempi di Steve
Mc Queen; non c’è più l’incombente paura
della morte come compagna abituale delle
gare automobilistiche. Ricordiamo anche
che ancora negli anni ’50, ’60 e 70’ il ricordo
della seconda guerramondiale era fresco nei
ricordi: l’eco della morte violenta era esor-
cizzato, per i tifosi dalla sfida alla morte in
pista. Ora, dopo oltre sessant’anni, pochi
sono i sopravvissuti aquelle atrocità e aquel-
le memorie, per cui le emozioni delle com-
petizioni motoristiche sono “sterili, protette
e pulite” come ricorda Roman Polanski nella
riedizione cinematografica del suo docu-
mentario “Weekend of a Champion”. Il
“marketing” non è etica. Fine dell’etica è il
benessere altrui, fine del marketing è la con-
garantire elevati introiti agli organizzatori
e questi annaspano per ridurre i costi e qua-
drare i conti.
Proviamo a dare qualche numero indicati-
vo, o almeno ragionevole per la Indycar: i
numeri precisi sono regolati da contratti
riservati. La televisione può portare fino a
15milioni di dollari e il merchandising circa
4 milioni di dollari; un’altra voce di fattu-
rato sono le “sanctioning fee” dai circuiti:
questa voce può essere in attivo (se il cir-
cuito paga per ospitare un evento) o in pas-
sivo se l’organizzatore paga il circuito, e
questa voce dipende dalla legge della
domanda e dell’offerta, da quanti circuiti
sono disponibili e quante gare sono in
calendario, dalla coda di chi (privati, muni-
cipalità, aziende) è disposto a offrire per
ospitare un evento. Si può andare da 5
milioni pagati dal circuito agli organizzato-
ri fino a un milione pagato dagli organizza-
tori al circuito. Aggiungiamo i diritti di
esclusività sulle bibite, i ricavi per cartello-
ni pubblicitari e le tasse che le squadre
pagano per iscriversi al campionato e arri-
viamo ad un totale di circa 50 milioni di
dollari. Questi ricavi coprono il personale
degli organizzatori,le attrezzature e le tra-
sferte, il marketing ed i premi. Alla fine,
quello che influenza la “vendibilità” credo
siano semplicemente le facce dei piloti, con
l’eccezione è Indianapolis: questo evento
ha una storia centenaria e la sua storia ha
un valore commerciale superiore a quello
dell’immagine di tutti i partecipanti, piloti
e sponsor: ecco un buon esempio di mar-
keting che rendemerce le emozioni e la sto-
ria. La vettura è al più un bel corollario, per
cui la sua prestazione diventa abituale in
poco tempo e non determina il successo a
lungo termine di un campionato; la vettura
deve essere sicura a sufficienza, promuove-
re gare entusiasmanti in cui nessun pilota
o squadra abbia un vantaggio troppo netto
se usa un certo motore o se investe grandi
somme in ricerca, ma deve permettere al
campione un difficile e meritato successo».
Ultimamente assistiamo ad una nuo-
va leva di piloti sudamericani: meri-
to del talento o di chi li spinge econo-
micamente?
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