Marco Cortesi
Carattere difficile quello di Bubba Wallace, al secolo Darrell Wallace Jr, unico pilota di colore dello schieramento della NASCAR. Arrivato con grande caparbietà a conquistare, e mantenere, un posto nell'olimpo delle gare Stock-Car, superando anche un passato di problemi depressivi, il 26enne di Mobile Alabama si è trovato collettore, nei confronti del pubblico, di tutte le ragioni che guidano le proteste antirazziste negli USA. E nonostante il grande impegno, ha accettato di buon grado la responsabilità, rivelandosi un ottimo leader, ragionevole e comunicativo, forse anche grazie ai suoi trascorsi non facili. La sua immagine con la maglia "I can't breathe", frase simbolo dell'omicidio di George Floyd da parte di agenti di polizia, è stata tanto forte quanto quella della solidarietà dell'organizzazione nel pre-gara di Atlanta.
Chiedere e ascoltare, l'approccio NASCARL'approccio che la NASCAR ha adottato è legato, prima di tutto, all'ascolto. Il messaggio primario che viene veicolato, è quello, per tutti, di migliorare le proprie informazioni chiedendo alla popolazione afro-americana di raccontare pareri ed esperienze. Per chi è in questo sport, Wallace è stato il primo da coinvolgere, e nonostante le tante domande, il portacolori del team di Richard Petty non si è fatto problemi a raccontare. Le sue storie rappresentano in pieno l'esperienza di vita di molti cittadini di colore negli USA. Il cugino colpito da un poliziotto mentre metteva una mano in tasca per prendere il cellulare, dando per scontato che avesse una pistola. A 8 anni, Bubba ancora non aveva iniziato a correre, ma mamma Desiree l'aveva probabilmente messo in guardia sul mondo a cui andava incontro. Lui, proveniente da una famiglia mista (il papà Darrell Sr. è bianco) l'ha presto imparato.
Parole e atteggiamentiNon si tratta solo di episodi gravi come quello raccontato. Ma di mille piccole discriminazioni. Come quando viene fermato perché al volante di un'auto "troppo bella". "Come te la puoi permettere?". O quando, prima di arrivare alla sua vettura, i poliziotti tirano automaticamente fuori le pistole senza fare domande. Episodi odiosi, vigliacchi, che non fanno altro che incrementare la rabbia repressa. In questo contesto anche una singola parola, quella che inizia con la N e che da noi tutti usano con troppa leggerezza, ferisce profondamente, e rischia di provocare reazioni scomposte. Nelle corse, per fortuna, sono poche le situazioni di questo tipo, ma la grande criticità che si riscontra a livello sociale impone di non arretrare di un centimetro come accaduto per il licenziamento di Kyle Larson. Una parola fuori posto può essere troppo.
Guerra alle bandiere confederateParole che Wallace ha sentito più di una volta, da rivali o addirittura ufficiali di gara (come quando il padre fece licenziare in tronco un commissario per averla usata). Ma anche atteggiamenti e insinuazioni. "Ogni giorno ho persone che mi accusano di essere arrivato in NASCAR solo per il colore della mia pelle" spiega. Fresco di rinnovo contratto col team Petty, Wallace ha una missione: eliminare le bandiere confederate dagli autodromi. Molti fan della NASCAR, in particolari quelli dal background più radicale e tradizionalista, sono legati al vessillo del sud, simbolo di un sovranismo ante litteram e di luoghi che, nell'800 basavano la loro esistenza e sussistenza sullo schiavismo.
E' arrivato per tutti il momento di entrare nel ventesimo secolo (possibilmente, prima o poi, nel ventunesimo). Dopo la presa di posizione NASCAR sulle ragioni della protesta, molti non hanno nascosto contrarietà e disprezzo, ma sono stati inondati da una risposta generale straordinariamente positiva. Anche nelle corse si è arrivati a un punto di non ritorno. Questo weekend, proprio Bubba Wallace sarà al via con una livrea dedicata al movimento di pensiero "Black Lives Matter".