Alfredo Filippone - XPB ImagesL’edizione del weekend del Financial Times, forse l’unico quotidiano davvero globale, ha sempre una lunga intervista-ritratto con un personaggio di spicco, rigorosamente fatta a pranzo in un locale scelto dall’intervistato. Questa settimana, ad avere gli onori del “Lunch with...” sulle pagine salmone dell’FT è stato Toto Wolff, il patron della Mercedes F.1, che ha fatto commenti interessanti e anche scomodi, e svelato particolari non noti della sua personalità.
Si sa che Wolff non ha mai digerito il rocambolesco esito del Mondiale scorso ad Abu Dhabi, che considera un’ingiustizia, ma sull’argomento non si è dilungato troppo, se non per dire: “Mi chiedono spesso quanto questo colpo sia stato duro, ma ho avuto tanti momenti difficili nella mia vita...” Più avanti riconosce che “non sono fiero di aver fracassato le cuffie in mondovisione, ma è andata così, in me c’è ancora qualcosa del ragazzino aggressivo che ha avuto una crescita tosta".
Cosa che spiega rivelando la travagliata storia familiare: figlio di papà rumeno e mamma polacca, entrambi fuggiti dai rispettivi regimi comunisti, Toto ammette di non aver mai superato la perdita del papà (“era il mio eroe”), stroncato da un tumore cerebrale, quando Toto era ancora ragazzo. Al trauma si aggiungono le difficoltà economiche. La ditta di trasporto d’opere d’arte del padre deve chiudere e la mamma, anestesista, sbarca il lunario come può, ma non riesce più a pagare la retta del Liceo francese dove erano iscritti i figli.
Un altro trauma: “Ricordo perfettamente la chiamata del direttore e dover lasciare la scuola davanti a tutti per poi spiegare a mia sorella piccola cosa era successo, in piedi alla fermata del tram...”. Momenti che lasciano il segno, e altri che insegnano. Ad aiutare i Wolff in quegli anni è una famiglia ebrea amica e, frequentando gli amichetti di quella confessione, il giovane Toto capisce tante cose: “Sentivo i commenti antisemiti per strada, mi sono reso conto presto di cosa fosse l’isolamento".
Forse è per questo che Wolff asseconda totalmente le tante iniziative in essere in F1 per promuovere uguaglianza e rispetto delle diversità e le battaglie personali di Hamilton, con cui, ammette, il rapporto all’inizio non fu facile: “Lewis ha il pregio di mettere il dito sui temi che scottano, di spingerci fuori dalla nostra zona di comfort.” Al giornalista che gli chiede delle esternazioni poco ‘politically correct’ di un Piquet o di un Ecclestone, risponde con sarcasmo: “Uno ha ottant’anni e l’altro, 105...”.
Andare sempre avanti, non addormentarsi sugli allori e anticipare il passo dei tempi; è questo il mantra del Wolff manager, che spiega il successo sportivo senza precedenti della Mercedes, con otto titoli mondiali consecutivi, con una constatazione in contrappunto: “L’uomo, per natura, è autocompiacente, finisce col perdere energie e ambizioni.” Spezzare questo assioma è dunque essenziale: “Il passato non conta, questo me lo ha insegnato Niki Lauda. Se si smette di sognare, diventi futile.”
E continua: “Perdere è doloroso ma non possiamo vincere sempre perché finiremmo per uccidere lo sport, nessuno lo guarderebbe più.” E su questo 2022 in cui la Mercedes non è vincente, spiega senza indugi: “In F1 comandano le leggi fisiche e abbiamo cannato la fisica...” Si dà un paio d’anni per tornare al successo, altrimenti “assumerò un ruolo più defilato".
Guardare avanti vale anche per la F1 come sport. Ritiene che la F1 ‘decarbonizzata’ è “quanto di meglio possa contribuire alla sostenibilità’ ed è convinto che “fin quando la F1 offrirà spettacolo, la gente se ne infischierà se i motori sono ibridi e le macchine fanno meno rumore”, incurante delle reazioni dei cosiddetti puristi (“mi piace che s’incavolino”), anche sulla diatriba fra circuiti storici e tracciati insulsi stile Las Vegas: “Bisogna evolvere, non c’è nulla di sacro.”