Alfredo Filippone
Con Nino Vaccarella, scomparso giovedì 23 settembre a 88 anni, se ne va davvero una figura singolare, che ha scritto alcune delle pagine più belle di uno dei periodi magici del nostro sport. ‘Re della Targa Florio’, ‘Preside volante’, ‘pilota e galantuomo’: gli encomi che si è guadagnato li conosciamo tutti, e forse sono stati usati fin troppo. Gli hanno cucito addosso un abito di leggenda che ha finito per banalizzare i tratti personali e sportivi che lo hanno caratterizzato.
E’ vero che la figura dell’uomo colto e raffinato (e i palermitani quando lo sono, lo sono davvero), del preside che correva il weekend e faceva di tutto per essere il lunedì mattina dietro alla scrivania all’Istituto Oriani fondato da suo padre (si dice che si perse persino la premiazione della 24 Ore di Le Mans la domenica sera per arrivare in tempo all’appuntamento con gli impegni scolastici) era stridente nel mondo delle corse dei Sessanta, come lo era la sua sicilianità, l’attaccamento viscerale alla sua isola. Quando Enzo Ferrari, che ne apprezzava sinceramente le qualità di pilota veloce, affidabile e rispettoso del mezzo, perfetto per le Sport, lo chiamò alla corte di Maranello, gli venne proposto di trasferirsi nel Modenese, per poter essere più vicino al reparto corse.
Capitò che la proposta gliela fecero in una giornata di fitta nebbia padana e ‘Ninni’, che si sentiva soffocare in quell’ovatta, disse che preferiva tornarsene al sole e al mare di casa sua e viaggiare quante volte fosse necessario, ben conscio che la rinuncia gli sarebbe potuto costare una carriera ancora più fulgente. La sicilianità, si sa, è materia insondabile e patria a sé stante, e forse più che l’indiscussa superiorità sul Circuito Piccolo delle Madonie, dove lui poteva andare ad allenarsi ogni giorno dopo la scuola, e i tre trionfi (1965 con Bandini su Ferrari 275P2, 1971 con Hezemans su Alfa Romeo e 1975 con Merzario su Alfa Romeo P33) alla Targa Florio, ’la cursa’ madre di tutte le corse, è la sicilianità a spiegare la popolarità che ebbe nell’isola, dove era poco meno che deizzato e fu simbolo del riscatto di un intero popolo.
Di scritte inneggianti a Nino, dipinte sull’asfalto, sulle pareti delle case o sulle rocce lungo il percorso, se ne possono vedere tante ancora oggi, a più di quarant'anni dall’ultima edizione. Una, dalle parti di Collesano, dice: “Dio perdona, Nino no”... e c’è poco da aggiungere. Di campioni capaci di trascinare cinquecentomila persone a vedere una gara, dovendo essere scortato dai carabinieri quando scendeva dalla macchina per non essere travolto dall’abbraccio della folla, non ce ne sono stati poi così tanti.
Lui, molto educatamente, faceva notare che venir identificato solo con i successi alla Targa Florio, era ‘un po’ riduttivo’, e aveva ragione, perché il suo palmarès, nelle gare di durata, allora più prestigiose della Formula 1, furono tantissime, comprese, nel 1964, la 1000 km del Nürburgring (quello ‘grande’) con Scarfiotti su Ferrari 275, la 24 Ore di Le Mans con Guichet su Ferrari 275P (con record della gara) e una memorabile edizione della 12 Ore di Sebring, nel 1970, con Giunti ed Andretti su Ferrari 512S. Uno degli ultimi acuti, proprio nella Sarthe, nel 1971, quando nel cuore della notte, riuscì a mettersi dietro, a un giro, tutte le Porsche 917 ufficiali e non, con la Ferrari 512S privata in livrea Escuderia Montjuich di José María Juncadella (lo zio di Dani) prima che cedesse il cambio.
Le Case se lo contesero, fu pilota ufficiale di Ferrari, Alfa, Porsche e Maserati, e non ebbe bisogno (né troppa voglia) di Formula 1 per entrare nel club dei grandi: appena 5 GP da privato, fra il 1961 e il 1965, miglior risultato un nono a Monza nel 1962. In fondo, dedicarsi ai Gran Premi lo avrebbe costretto a cambiare vita, a lasciare l’isola, a trascurare i doveri e gli affetti. E forse pensò, molto sicilianamente, che il suo destino non era quello.