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19 Set [13:44]

Il caso Herta
"Loro non ci vogliono" - L'accusa
dei piloti Indycar contro la F1

Massimo Costa

Sembra il titolo di un film: "Loro non ci vogliono". Invece, è il grido rabbioso di un pilota americano Indycar, per la precisione Graham Rahal, figlio dell'ex Bobby (due GP F1 disputati nel 1978 con la Wolf) che da ormai 30 anni gestisce un team Indycar assieme a David Letterman (grande e inimitabile presentatore televisivo), contro il mondo e il sistema della F1. Perché Rahal junior, 33 anni, si è lasciato andare a questo tweet (doppio) polemico? Ecco il testo: “La F1 è uno sport elitario. Non ci vogliono. Ricordatevelo. Vogliono i soldi delle aziende americane, vogliono i soldi dei ricchi americani. Il resto non interessa. È sempre stato così e sarà sempre così”. Aggiungendo poi in un altro tweet: “Per coloro che dicono che Colton non s’è guadagnato l’opportunità, siete fuori strada. Ha talento come e più degli altri. È un vincitore certificato. È arrivato in cima e ha fatto straordinariamente bene. La F1 ha avuto per anni piloti paganti rispetto a cui Colton non ha nulla da invidiare. Questi sono i fatti”.

Il dibattito si è scatenato in difesa di Colton Herta, collega nella serie americana, che è in odore di F1, leggi Alpha Tauri, ma il suo approdo nel team di Faenza sembra complicato. Herta, a sua volta figlio di un altro ex pilota Indycar/CART, non ha i punti necessari per ricevere la Super Licenza benché, dopo essere stato vice campione Indy Lights nel 2018, nella serie Indycar abbia ottenuto un settimo posto nel 2019, si sia piazzato terzo nel 2020 e quinto nel 2021 mentre questa stagione l'ha conclusa in decima posizione. Sette le vittorie ottenute nei suoi quattro anni di Indycar oltre a nove pole.

Un curriculum certamente di alto profilo per il 22enne americano, uno dei giovani più promettenti espressi negli ultimi anni dalla categoria. Eppure, il sistema punti FIA, spesso criticato e compilato da qualche burocrate della federazione, pone la Indycar sotto la europea Formula 2 che concede 40 punti ai primi tre classificati poi 30 al quarto, 20, 10, 8, 6, 4 e 3 al decimo. Per la Indycar invece, 40 punti vanno al campione, ma al secondo 30, al terzo 20, poi 10, 8, 6, 4, 3, 2, 1. Una vera sciocchezza considerando l'elevato livello e qualità della serie americana.

Per la super licenza F1 servono 40 punti, Herta ne possiede 33, di certo ne avrebbe 20 in più, per via del suo terzo posto del 2020, se la FIA nella sua tabellina avesse concesso alla Indycar gli stessi punteggi (anzi, a nostro avviso dovrebbero essere anche maggiori) della Formula 2. Un privilegio francamente eccessivo per la categoria cadetta europea il cui livello e qualità dei piloti, come abbiamo visto anche quest'anno, è decisamente sopra stimato e non è un caso che nessuno dei partecipanti a tale campionato 2022 debutterà in F1 il prossimo anno.



C'è, però, nel regolamento FIA, una postilla che potrebbe permettere, a qualsiasi pilota meritevole che non ha raggiunto la quota necessaria per ottenere la super licenza, di essere comunque promosso. Il tutto a insindacabile giudizio dei membri FIA, ma il pilota in questione deve avere raggiunto i 30 punti. Cosa che Herta ha fatto nei 4 anni di riferimento, dal 2019 al 2022. Questa possibilità però, è subito stata contestata dalle Academy F1 che allevano giovani piloti e che magari pur essendo talentuosi non hanno ottenuto i punti necessari per vari motivi (ritiri per incidenti o motivi tecnici). Qualcuno è arrivato a minacciare: se a Herta viene concessa la super licenza, chiudiamo la Academy.

Molto diplomatico lo stesso Herta su questo punto che ha dichiarato ad Autosport nei giorni scorsi: "Posso solo dire che l’Indycar è sotto rappresentata nella classificazione dei punti per la super licenza. Ma dal loro punto di vista, con l’attuale struttura, lo capisco. E non voglio entrare in F1 come un’eccezione”.

Tornando al tweet di cui sopra, nella polemica è intervenuto anche Alexander Rossi, californiano di 30 anni, che in F1 ci è arrivato prima con la Caterham (solo prove libere), poi con la Marussia nel 2015 disputando cinque Gran Premi (nella foto sotto) dopo una lunga e proficua carriera in Europa dalla Formula BMW alla GP2. Rossi, ultimo pilota USA a correre in F1, dal 2016 è entrato in Indycar col team Andretti al quale è tuttora legato, vincendo la 500 Miglia di Indianapolis in quel suo primo anno americano. Entrando nel dibattito con Rahal, ha scritto:

"Non posso più stare in silenzio. Sono stanco di sentire questa storia della Super Licenza. La premessa dietro la Super Licenza è di impedire che il primo arrivato, senza requisiti, possa comprarsi un sedile in F1. E di fare in modo che sia il talento a prevalere. Ed è giusto. Siamo tutti d’accordo, ma Colton ha il talento e la capacità di stare in F1. E dovrebbe essere in grado di prendersi l’opportunità che gli è stata offerta. Il motorsport è lo sport di più alto profilo al mondo in cui il denaro può superare e sconfiggere il talento. E questo è il grande problema alla base di tutto”.



Una affermazione decisamente condivisibile quella di Rossi che ha toccato con mano le problematiche europee del motorsport, di certo meno acrimoniosa di quella di Rahal che ne ha fatto una sorta di classismo con quel "a noi americani non ci vogliono". Che poi, per dirla tutta, il buon Graham sarebbe l'ultimo a dovere fare la morale in quanto, dopo i primi anni di Indycar non propriamente esaltanti trascorsi con Newman/Haas e Ganassi, dal 2013 corre solo grazie al team diretto da papà Bobby e occupa quel sedile da ben dieci anni con all'attivo appena cinque successi. Una sorta di... Lance Stroll a stelle e strisce.

C'è un altro aspetto da sottolineare. Non è vero che la F1 maltratta i piloti americani. Logan Sargeant, 21enne di Boca Raton (Florida), ha fatto tutta la scalata delle categorie per monoposto in Europa dopo aver vinto il Mondiale kart Junior nel 2015 e oggi è parte della Academy Williams nonché terzo nel campionato F2. La Red Bull annovera nei propri ranghi Jak Crawford, 17enne del North Carolina, settimo in F3 quest'anno e che ricordiamo nella F4 Italia del 2020, sesto classificato, e già nelle grazie di Helmut Marko. 

Dunque, non è vero, come sostiene Rahal, che vi sono pregiudizi del mondo F1 nei confronti dei piloti americani. Piuttosto, vi sono nei confronti delle serie statunitensi, non ritenute propedeutiche come quelle europee, e questo è un dato di fatto incontestabile. La qualità dei campionati karting e dalla F4 in su, dei circuiti, dei team, è nettamente superiore a quella USA. Tutto probabilmente nasce da qui, da questa differenza, e di conseguenza a pagarne lo scotto è la Indycar, in questo caso troppo frettolosamente declassata a categoria di secondo piano.




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