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20 Mag [0:19]

Indianapolis - L'analisi:
Alonso e i perché di un fallimento

Massimo Costa

Quando la McLaren aveva annunciato la propria partecipazione alla 500 Miglia con Fernando Alonso, si era intuito che Zak Brown avrebbe creato una propria squadra dopo che nel 2017 si era affidato a uno dei migliori team della serie, quello di Michael Andretti. Che però è targato Honda e quindi l'operazione era impossibile da ripetere per ovvi motivi. A sorpresa, la Dallara arancione è stata affidata alla struttura inglese di Trevor Carlin, un nome importante e vincente nelle serie inferiori in Europa (F2, F3, F4 e finché esisteva, World Series Renault), ma in Indycar ancora distante anni luce dai top team Andretti, Ganassi, Penske, nonostante gli sforzi e il coraggio per aver intrapreso la via americana.

Il primo punto interrogativo che sorge ora dopo il fallimento clamoroso della mancata qualifica di Fernando Alonso alla 500 Miglia di Indianapolis è questo: come è possibile che la McLaren abbia affiancato il proprio glorioso nome a una squadra che potremmo definire apprendista nel contesto Indycar? Zak Brown da quando è assunto a team principal del team di Woking, non ha spesso brillato per competenze e scelte effettuate. L'improvvisazione con cui ha gestito l'operazione Indianapolis 2019 evidenzia una volta di più questo aspetto. Ron Dennis non avrebbe mai permesso tale unione.

Il secondo punto interrogativo è il seguente: come è possibile che un pilota come Alonso, alla ricerca del fenomenale tris di vittorie (F1, 24 Ore di Le Mans, 500 Miglia di Indy), abbia accettato una situazione del genere? Probabilmente lui e il suo management hanno sopravvalutato le capacità del team Carlin e degli uomini scelti per gestire la sua vettura. E sottovalutato la qualità dei rivali. Non è un caso se su quattro monoposto schierate sotto le insegne di Carlin, solo una si sia qualificata, quella di Charlie Kimball. Dunque, l'ennesima scelta sballata in una carriera spesso costellata di errori manageriali?

Il terzo punto interrogativo invece ci porta a questo ragionamento: due anni fa, Alonso aveva disputato una meravigliosa 500 Miglia ed era nel pieno del Mondiale F1, anche se le cose non andavano propriamente bene con la McLaren-Honda. Ma era allenato a guidare le migliori monoposto del mondo. Dal suo ritiro dalla F1 avvenuto lo scorso dicembre ad Abu Dhabi, Alonso non ha più guidato (a parte un rapido ritorno F1 nei test di Sakhir) con costanza delle monoposto, limitandosi alla Toyota LMP1 dove come si sa non aveva avversari, passeggiava. Al di là della evidente inefficacia del team Carlin, è anche lampante che Alonso non ha fatto alcuna differenza a Indianapolis, pareva un pilota qualsiasi alla ricerca di un posto al sole sullo schieramento di partenza della 500 Miglia: quanto può avere influito l'essersi presentato sull'ovale dell'Indiana senza l'allenamento delle monoposto F1? E senza aver svolto prima gare Indycar per ritrovare il giusto ritmo?

Il quarto punto interrogativo tira in ballo l'incidente del 15 maggio. Sbattere a Indianapolis non è mai piacevole e può provocare contro indicazioni future. Basta un attimo, una sensazione interna ben nascosta, per non spuntare più i tempi di prima, per non sentirsi più in possesso delle certezze abituali. James Hinchcliffe e Kyle Kaiser hanno picchiato anche più forte dello spagnolo i giorni successivi, ribaltandosi pure, ma rituffatisi in pista hanno superato la qualifica. Alonso no. Quanto può avere influito il suo incidente?

Il quinto punto interrogativo è questo: la mancata qualifica di Alonso sta suscitando un certo shock nel motorsport USA e tra gli organizzatori dell'Indycar. Certo, il pienone di pubblico è comunque garantito, Fernando o non Fernando, ma la ribalta mondiale sarebbe stata completamente diversa. In queste ore di "disperazione" sta circolando la voce che la McLaren possa "comprare" il posto di un altro pilota per far spazio ad Alonso. Ma lo spagnolo accetterebbe una umiliazione del genere? Sbattere contro la porta chiusa ed entrare dalla finestra?