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26 Ott [16:57]

Simoncelli e il Motorsport non si meritano
le banalità del quotidiano Repubblica

Giovanni Valentini, vice-direttore de La Repubblica, dopo la morte di Marco Simoncelli sulle colonne del suo quotidiano si è chiesto a cosa servano, al giorno d’oggi, le gare di automobilismo e motociclismo. “Una volta si diceva che servivano a far evolvere la tecnologia”, scrive Valentini. “Anche sul piano del comfort e della sicurezza, a vantaggio di tutti: dai freni a disco alla cellula di sopravvivenza, dal cambio automatico alle appendici aerodinamiche eccetera eccetera. Ma regge ancora una risposta del genere di fronte alle immagini atroci del giovane centauro, caduto in curva e stritolato dalle ruote dei suoi incolpevoli rivali?”.

Le conclusioni a cui arriva alla fine dell’articolo, volendo sintetizzare iin maniera un po’ schematica – e me ne scuso – sono brutali. Le corse sono nemiche del risparmio energetico e dell’ambiente, sono “modelli negativi” che instillano nei giovani l’attitudine a comportamenti scorretti (“sotto l’influsso della narrazione agonistica”: la colpa, anche per i giornalisti, evidentemente è sempre dei giornalisti) e alimentano la fuga verso l’autodistruzione del genere umano. “In memoria di Simoncelli”, conclude Valentini, “dobbiamo dire che ci sono anche morti che non possiamo più permetterci. E la sua, a 24 anni, su quella pista maledetta della Malesia, è purtroppo una di queste”.

Opinione rispettabile come tutte, ma sostenuta da argomentazioni che mettono un po’ tristezza, specie perché provengono da un maestro di giornalismo. Primo, perché non si capisce perché l’evoluzione tecnologica che fino a ieri ha portato benefici riconosciuti a tutti gli automobilisti, al giorno d’oggi, dovrebbe improvvisamente essersi interrotta. Mistero. Secondo: perché allora non domandarsi a cosa serve l’alpinismo, dove gli scalatori, anche giovani (ma a noi dispiacciono le morti anche dei maturi e degli anziani), muoiono a grappoli, o il ciclismo, dove dal ’95 (l’anno della morte di Casartelli al Tour) ad oggi, solo nelle massime competizioni, sono rimasti sull’asfalto o sulla pista una dozzina di atleti?

Tanto varrebbe, allora, abolire tutto lo sport professionistico, cioè la fabbrica di migliaia di dopati all’anno che rischiano fortemente di trasformarsi in malati e infermi del domani. Il football americano, o la boxe, inducono traumi che in molti casi – come è stato accertato da diversi studi medici – provocano malattie letali o invalidanti come il morbo di Parkinson: vogliamo abolirli? Oppure queste morti, palesi o occulte, ce le possiamo tranquillamente permettere? Come ha fatto giustamente notare Giordano Biserni, presidente dell’Asaps, il "vero pericolo per i motociclisti è sulle strade italiane dove in 10 anni, dal 1998 al 2008, sono morti 14.293 centauri e 860.530 sono rimasti feriti”.

Tutta colpa di cattivi maestri come Valentino Rossi e degli inviati di motociclismo, compresi quelli di Repubblica? La morte di Marco Simoncelli, aggiunge Biserni, “non deve trarre in inganno. La pista rimane comunque il posto più sicuro del mondo per un motociclista: pur con velocità medie di quasi 200 km/h e punte da 300 km/h, ci corrono i migliori piloti, con le migliori protezioni, le vie di fuga non hanno piante e manufatti, ma decine di metri di sabbia. I soccorsi arrivano in 20 secondi e non in 20-30 minuti. Ma soprattutto in pista c'è un fattore di valore assoluto per la sicurezza: le regole”.

Chi corre in pista o su strada lo fa di propria volontà e sa benissimo cosa rischia. La morte di Simoncelli ha commosso il mondo, ma forse a Repubblica hanno male interpretato il flusso emotivo che ne è scaturito. Nessuno se l’è presa con le corse, visto che l’incidente è stato frutto di una pura fatalità. Tutti hanno riconosciuto che Sic è morto facendo ciò che voleva fare, soprattutto sapendo benissimo cosa stava facendo e che un incidente fatale, in pista, è sempre un’opzione. Se dovessimo proteggere ogni giovane, o ogni persona, che corre un rischio “non necessario” finiremmo per dover mettere sotto tutela mezzo mondo, vietare e abolire una quantità di attività che, al giorno d’oggi, ci paiono, a ragione, accettabilissime.

A questo punto una domanda ce la poniamo noi: il Valentini corsivista anti-corse (perdonate il bisticcio) è lo stesso Giovanni Valentini che nel 1997 ha partecipato alla Mille Miglia storica, descrivendo su Repubblica la sua esperienza di driver di una competizione che si svolge in strada, fra altre vetture che non ne fanno parte, alla quale al giorno d’oggi partecipano miliardari a bordo di auto stra-inquinanti, e che nella versione agonistica fu abolita per l’incidente che nel 1957 costò la vita a De Portago e a nove spettatori?

“Vista dall' interno, e in questo caso dall'interno di una Mercedes 300 SL 'Ali di gabbiano' del 1954 – scrive il Valentini del ’97 - senza perdere il suo spirito competitivo come prova di guida e di abilità, la 'Mille Miglia' diventa soprattutto una festa di popolo e offre ai partecipanti un'occasione straordinaria per scoprire un'altra Italia, per ammirare un paesaggio naturale, un panorama architettonico e anche umano molto diverso da quello freddo e consueto dell' autostrada”.

Per poi concludere: “Per la casa tedesca come per tutte le altre che possono vantare un blasone e un passato sportivo, la forza della tradizione è la migliore garanzia di affidabilità”. Se fosse così, dal 1997 a oggi Valentini avrebbe cambiato radicalmente idea sull’utilità delle corse. O forse, stavolta, verrebbe da dire, gli è mancato l’illuminato conforto della Mercedes.
gdlracing