19 Apr [14:00]
Il Bahrain respinge giornalista italiano
La FIA interviene e lo fa rientrare
Massimo Costa
Le bugie dei governanti, in questo caso dei regnanti, sono la prassi quando impongono repressione davanti alle proteste dei cittadini, quando scambiano la parola regime con democrazia. Mostrare il sorriso è la regola, anche se hanno comunicato poco prima al capo della polizia di sparare fumogeni sui dimostranti. Così in una intervista alla Gazzetta dello Sport, Shaikh Al Khalifa (un appartenente alla famiglia del Re) afferma che tutto è tranquillo raggiungendo il punto zen con questa frase: "Se qualcuno vorrà protestare in modo pacifico, con cartelli sulle tribune, che lo faccia, è democrazia".
Poco dopo si è appreso che ottanta persone, senza aver nulla fatto, appartenenti ai gruppi di protesta, sono state arrestate per prevenzione. Una democratica prevenzione. Ieri, abbiamo pubblicato una (democratica) intervista a Nabeel Rajab, un bahreinita a capo di un’associazione per i diritti umani, apparsa sulla italiana La Stampa. Ebbene, il giornalista Stefano Mancini, autore della intervista, al suo arrivo all'aeroporto del Bahrain è stato democraticamente respinto. Come in tutte le democrazie, scrivere qualcosa che non piace al regnante, comporta l'espulsione dal Paese.
Mancini si è così ritrovato a Dubai, da lì ha chiamato il responsabile FIA per la stampa. Ed ecco il racconto su La Stampa dello stesso Mancini:
"La tensione sale in Bahaain alla vigilia del ritorno del Gran Premio, cancellato lo scorso anno dopo la sanguinosa repressione delle proteste di piazza. E nel giorno dell’arresto di 80 oppositori, aver intervistato un dissidente è un buon motivo per finire nella lista nera ed essere respinto alla frontiera.
Scopro di essere indesiderato soltanto al mio arrivo a Manama, eppure i segnali li avevo già avuti al check-in a Dubai dove insistevano sul fatto che non potevo volare perché ero senza biglietto di ritorno, quando la data del rientro era invece stampata chiaramente.
Ripenserò un paio d’ore più tardi alla conversazione che ha preceduto il mio viaggio. Ci mediterò davanti all’ufficio visti, mentre i miei documenti sono da venti minuti nelle mani di un poliziotto dai modi gentili. Sono tutti educati e cordiali, gli addetti alla sicurezza, fino a un minuto prima di comunicarmi che qualcosa non va. «Lavora per un giornale?», chiede l’uomo in divisa. «Sì». «Mi scriva il nome». «Il mio?». «No, quello del giornale». E’ la frase chiave, la password che mi spalanca davanti agli occhi una situazione che fino a quel momento rifiutavo di prendere in considerazione: sanno che due giorni prima ho intervistato Nabeel Rajab, un bahreinita a capo di un’associazione per i diritti umani. E, soprattutto, qualcuno li ha informati che avrei dovuto incontrarlo per visitare assieme a lui e altri un villaggio dove - parole di Rajab - la repressione era stata più violenta.
E’ tardi per rimproverarmi di aver usato il cellulare, di essermi presentato con nome e cognome, di aver preso un appuntamento senza sospettare che la persona che cercavo potesse essere intercettata. Il poliziotto mi ha identificato al di là di ogni ragionevole dubbio e i suoi modi diventano bruschi: «Venga via con me». Senza troppe cerimonie mi accompagna fino al portellone dell’aereo che sta ripartendo per Dubai: vengo respinto per aver avuto rapporti con i dissidenti.
«Vedo che le piace molto volare con la nostra compagnia», mi sorride la stessa hostess del volo di andata, ignara dei retroscena. A Dubai informo dell’accaduto la Federazione internazionale dell’Automobile, che sollecita gli organizzatori a intervenire. Le trattative diplomatiche durano ore, poi dal circuito arriva una mail con il visto: la Fia ha convinto le autorità che fare a meno dei giornalisti non è prassi accettabile.